Dolor y gloria
23 Agosto 2019 - 21:15
ATTENZIONE: A CAUSA DEL RISCHIO DI PIOGGIA LA PROIEZIONE SARà AL NUOVO EDEN (VIA NINO BIXIO 9).
Il ritorno di Pedro Almodóvar dopo "Julieta" del 2016. Col suo ventunesimo film, di chiaro stampo autobiografico, il famoso autore spagnolo premio Oscar ci accompagna a passeggio attraverso il suo viale dei ricordi. Antonio Banderas interpreta infatti un regista che, ormai sessantenne, ripensa con tenerezza e malinconia alla sua gioventù e al suo amore per il cinema, in una commedia agrodolce che sa far ridere ed emozionare. Salvador Mallo è filmmaker in declino, irrimediabilmente ancorato alle sue memorie d'infanzia. Dagli anni ‘60, quando emigra con i suoi genitori a Paterna, al suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni ‘80, tutto è un ricordo da raccontare. É proprio la rottura dal suo primo amore che fa nascere il lui la scintilla per la scrittura, unica terapia per dimenticare l'indimenticabile. “Dolor y Gloria” parla della creazione artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle passioni che le danno significato e speranza. Dire che Pedro Almodovar lavora sul filo dell'autobiografia è quasi una banalità: ogni suo film ne proietta lo spirito dissacrante, il gusto per gli oggetti feticcio; ogni film rispecchia il variegato universo femminile a lui caro, ogni film celebra le imperiose leggi del desiderio. Tuttavia per Dolor Y gloria, il discorso è diverso: stavolta il cineasta si produce in un'autoconfessione che, indipendentemente da eventuali riferimenti reali, filtra sullo schermo l'essenza di una profonda esperienza interiore. (Alessandra Levantesi, La stampa) Dell'ultimo Almodóvar, come di Jarmusch, si è detto che è un riepilogo dei temi dell'autore. Si dice sempre cosi, dei registi in là con gli anni, ma quello che qui colpisce è invece quanto il sessantanovenne autore madrileno quasi neghi se stesso, andando non solo oltre il proprio mondo pop ma addirittura oltre il melodramma. Storia di un regista in crisi umana prima ancora che artistica, ossessionato dal passato e preda dell'eroina, il film incasella tutti gli elementi del melò ma li prende contromano, negando le lacrime (e lo dice esplicitamente): più che la storia, dunque, è decisiva la lezione di stile, che è anche, sotto sotto, il correlativo di un protagonista ormai incapace di sentimenti. Come spesso nei registi che raccontano registi, il film è il racconto di un rimorso tanto struggente da farsi, all'affiorare dei ricordi, quasi elegia. Al fondo, il rifugio e la salvezza sembrano essere la memoria di un'infanzia popolare, in cui il cinema, la musica e gli affetti davano senso al crescere nel mondo. (Emiliano Morreale, La Repubblica)