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La bellezza dell’arte e i valori che animano la Poliambulanza diventano sostegno per chi lavora e per chi vi è curato.

Arte come Cura è un progetto di Fondazione Poliambulanza e di Fondazione Brescia Musei.

Il progetto

Il progetto Arte come Cura nasce dalla volontà di veicolare all’interno di alcuni spazi  di Fondazione Poliambulanza i messaggi della Fondatrice delle Suore Ancelle della Carità, Santa Maria Crocifissa di Rosa.

Dalle Ancelle riceviamo un patrimonio di valori espressi in un cammino storico contraddistinto da innumerevoli tappe, di cui sono state testimoni, protagoniste, innovatrici. Uno dei numerosi ambiti in cui hanno riversato il loro carisma è Fondazione Poliambulanza, oggi centro ospedaliero d’avanguardia, in cui queste donne coraggiose hanno scritto pagine memorabili, tra lungimiranza, capacità di visione e intraprendenza. Messaggi universali, che risultano ancora oggi attuali e riescono a   raggiungere il cuore del personale e dei pazienti della struttura ospedaliera.

Come amplificarne il valore comunicativo e aiutare a veicolare in modo incisivo i valori cardine che da oltre un secolo animano Poliambulanza?

Proprio con questo intento si è sviluppata la sinergia con Fondazione Brescia Musei e l’arte è stata la risposta. Le parole e l’esempio di Santa Maria Crocefissa di Rosa unitamente all’arte ed alla cultura diventano così sostegno per chi lavora e per i pazienti che a Poliambulanza affidano la propria salute. Strumenti preziosi per accompagnare lo scandire quotidiano della vita in ospedale.

Il progetto così declinato contribuisce a portare “l’arte nella cura” e ad avvicinare due elementi apparentemente distanti   tuttavia fortemente sinergici, infondendo serenità e fiducia. L’arte aiuta a rendere più bello e accogliente l’ospedale, viceversa l’ospedale favorisce la conoscenza dell’arte e del patrimonio museale in chi, a vario titolo, lo frequenta.

Le opere

Francesco Hayez (Venezia 1791 – Milano 1882)
I profughi di Parga, 1831
Olio su tela, cm 201×290
Ingresso: 1844, legato Paolo Tosio 

 Il dipinto fu commissionato a Francesco Hayez da Paolo Tosio, che lasciò piena libertà all’artista sulla scelta del soggetto. La grande tela raffigura un drammatico evento della storia contemporanea che suscitò larga risonanza in Europa: si tratta della tragedia che colpì il popolo della città greca di Parga, ceduta dal governo britannico agli Ottomani nel 1817. Come si osserva nel dipinto, gli abitanti della città fuggirono all’arrivo degli invasori, dando alle fiamme le spoglie degli avi prima di salire sulle navi dei soccorritori inglesi. Il pittore apportò diverse modifiche in corso d’opera, stemperando, ad esempio, l’enfasi eroica, disperatamente minacciosa, della figura virile al centro, ma conservandone il ruolo di fulcro luminoso e compositivo. Sostenuta dalla condotta accademica del disegno, l’impaginazione della scena si gioca sulla modulata variazione dei registri espressivi e sentimentali dei personaggi che compongono il gruppo in primo piano, come nel coro di un dramma verdiano. All’indomani della dura repressione dei primi moti risorgimentali del 1830-1831, la tela fu presentata a Brera e letta come un’aperta condanna della violenza, del delitto, dell’oppressione. A dieci anni dal suo compimento, Giuseppe Mazzini celebrava in un suo scritto Hayez come “genio democratico” e “pittore della nazione”, proprio in virtù di questa insuperata rappresentazione di un “popolo-martire, di cui il nome collettivo è il solo superstite, di cui gli individui, tutti eroi di patriottismo, rimangono anonimi”. 

Pittore bresciano (?)
San Giorgio e il drago, 1460-1465 circa
Tempera su tavola, oro a guazzo e foglia d’argento, cm 116×163
Ingresso: 1883, acquisto dalla fabbriceria della chiesa di San Faustino 

 La celebre tavola proviene dalla chiesa bresciana di San Giorgio, dove, probabilmente, era collocata sull’altare maggiore, al centro di un raffinato tabernacolo ligneo, intagliato e dorato (oggi perduto). Già le fonti settecentesche lodavano il dipinto per la dolcezza della scena e la finezza dell’esecuzione, mentre la critica del Novecento ha animato un acceso dibattito, ancora irrisolto, circa l’attribuzione del dipinto. Le numerose ipotesi hanno chiamato in causa artisti più o meno noti della pittura tardogotica bresciana, o più genericamente lombarda o veneto-adriatica. La lettura corrente propende per un ignoto artista che, lavorando a Brescia, ebbe modo di intercettare diverse influenze, da quelle milanesi a quella di Jacopo Bellini e, soprattutto, di conoscere Gentile da Fabriano, che nel Broletto cittadino aveva dipinto alcune scene della leggenda di san Giorgio. Nella valutazione stilistica della tavola, non si può tuttavia trascurare che essa fu oggetto nel tempo di numerosi rifacimenti, dovuti probabilmente alla delicatezza e singolarità delle tecniche esecutive. La ricchezza delle lavorazioni – con consistenti parti a rilievo ricoperte da lamine di vari colori, zone lavorate a punta metallica, brani in cui le decorazioni sono ricavate graffiando la superficie cromatica per rivelare l’oro di fondo – contribuisce ad accrescere la suggestiva atmosfera da favola cortese della composizione. 

Francesco Hayez (Venezia 1791 – Milano 1882)
L’incontro di Giacobbe ed Esaù, 1844
Olio su tela, cm 208×300
Ingresso: 1863, legato Camillo Brozzoni 

Francesco Hayez presentò l’Incontro di Giacobbe ed Esaù all’Esposizione di Belle Arti dell’Accademia di Brera nel 1844. Come riportato nelle sue Memorie, per rendere al meglio “con stile semplice ed elevato quell’altissimo soggetto” intraprese un intenso studio delle Sacre Scritture. La scena raffigura il momento in cui Giacobbe, dopo un lungo esilio generato dal conflitto intorno alla primogenitura, rientra nella terra degli antenati e affronta il fratello: presentatosi in testa a un corteo di donne e fanciulli, egli si inchina sette volte a terra, ottenendo il perdono di Esaù. Se da un lato l’interesse per i soggetti biblici era legato alla possibilità di esplorare nuovi orizzonti espressivi – a cominciare dalla resa del nudo e dalla rappresentazione di paesaggi e costumi esotici, in ottemperanza al dilagante gusto orientalista – dall’altro le scene ispirate alla storia del popolo di Israele fornivano, in ottica Risorgimentale, uno specchio delle sofferenze dell’Italia non ancora unita. Non a caso l’interpretazione del racconto sacro è immune da ogni sfumatura devozionale: quelli rappresentati sulla tela sono sentimenti moderni, centrati sui temi del perdono e della riconciliazione. Il dipinto è tutto giocato sulla controllatissima costruzione della composizione, dominata dalla luce fredda dell’alba: la tavolozza – che genera effetti di vibrante trasparenza luminosa – è ispirata ai grandi modelli del Settecento veneto, da Tiepolo a Sebastiano Ricci. 

Alessandro Bonvicino detto il Moretto
(Brescia 1498 circa-1554)
San Nicola di Bari presenta gli allievi di Galeazzo Rovellio alla Madonna in trono con il Bambino (Pala Rovellio), 1539
Olio su tela, cm 245×192
Ingresso: 1891, dalla chiesa di Santa Maria dei Miracoli, Brescia 

La celebre pala fu donata al santuario civico di Santa Maria dei Miracoli dal maestro di grammatica Galeazzo Rovellio. Il fine del committente era di porre sé stesso e i propri discepoli sotto la protezione della Madonna e di san Nicola di Bari, tradizionalmente considerato il santo protettore dei fanciulli. Quest’ultimo è riconoscibile, al centro della scena, per la presenza dei suoi caratteristici attributi, l’abito vescovile e le tre sfere d’oro rette da uno dei suoi giovani allievi, trasposizione pittorica dei tre sacchi d’oro con i quali il santo provvide a garantire la dote matrimoniale a tre fanciulle di una famiglia caduta in disgrazia. L’impaginazione della scena è determinata dall’insolita collocazione del trono, spostato a ridosso del margine destro e posto in posizione soprelevata: si tratta di un taglio asimmetrico, che ha la sua origine nella Pala Pesaro di Tiziano, al quale rimanda anche la vivace e ricca tavolozza usata da Moretto. Non mancano, inoltre, segni del domestico realismo che costituisce la marca distintiva della pittura lombarda: le tracce di umidità sui marmi dell’arcata, i ciuffetti d’erba che infestano l’architettura, tre garofani selvatici, il bordo d’oro della tela preziosa che orna il trono, le tessere del mosaico dell’abside. A questa inclinazione alla naturalezza, che conferisce al dipinto l’attrattiva di una scena di famiglia, si devono ricondurre anche l’affettuoso abbraccio tra il Bambino e la Madre e il protettivo gesto con cui san Nicola sospinge i fanciulli verso il trono. 

Alessandro Bonvicino detto il Moretto
(Brescia 1498 circa-1554)
Adorazione della reliquia della santa croce con i santi Faustino e Giovita (Stendardo delle sante croci), 1520 circa
Olio su tela, cm 225×152
Ingresso: 1854, dal Palazzo della Loggia, Brescia 

Nel marzo del 1520, su richiesta del vicario vescovile Mattia Ugoni, il consigliò speciale della città di Brescia deliberò i fondi per la realizzazione di lavori di miglioria nella cappella delle Sante Croci in Duomo vecchio, a seguito dell’istituzione dell’omonima Compagnia. A questa campagna di interventi risale lo Stendardo delle sante croci. Documentata fin dal XVII secolo nel Palazzo della Loggia, la tela è stata a lungo contesa tra l’assegnazione a Romanino e a Moretto, sancita definitivamente a quest’ultimo dalla critica del secolo scorso. La scena è rigidamente bipartita da un letto di nuvole, sopra il quale i due santi patroni della città, Faustino e Giovita, sorreggono la reliquia della santa croce. In basso, tra una schiera di aristocratici bresciani, emergono i ritratti dei tre prelati più influenti nella Brescia del tempo: oltre al citato Mattia Ugoni, il vescovo Paolo Zane e il cardinale Altobello Averoldi. La datazione al 1520 circa trova conferma nell’analisi dello stile, caratterizzato dalla fortunata combinazione dei solidi volumi delle figure, frutto dell’osservazione di Bramantino, e delle tinte smaglianti del colorismo veneziano, debito della conoscenza di Tiziano. Tipicamente bresciano è, però, l’uso sapiente della luce, che accorda registicamente i riverberi dei colori e i trapassi chiaroscurali. 

Lorenzo Lotto (Venezia 1480 circa-Loreto 1566)
Adorazione dei pastori, 1530
Olio su tela, cm 146×166
Ingresso: 1844, legato Paolo Tosio 

Tra il 1824 e il 1825, Paolo Tosio acquistò l’Adorazione dei pastori di Lorenzo Lotto per la sua collezione, sebbene all’epoca il dipinto dovesse presentare un aspetto diverso, più consono all’inclinazione classicista dell’amateur bresciano. Estese ridipinture avevano occultato l’intenso effetto luministico sul volto degli angeli, le tonalità violette delle loro ali, l’apparenza nuvolosa del cielo e l’azzurro acceso del manto della Vergine, trasformato in una più uniforme e pacata stesura blu. Nell’interno della capanna di Betlemme, due angeli con le ali spiegate introducono al cospetto della Sacra Famiglia i pastori, che recano in omaggio un agnello. Non si può non cogliere l’intensa caratterizzazione fisionomica dei queste due figure, che sotto le pesanti casacche indossano vesti preziose: si tratta dei committenti del dipinto, sebbene la loro identità non sia stata ancora chiarita. In uno slancio di infantile tenerezza, il Bambino afferra con entrambe le mani il muso dell’animale, evidente prefigurazione del destino di Cristo e del suo salvifico sacrificio. La composizione è tutta giocata sull’elegante concatenarsi dei gesti che legano tra loro gli angeli e i pastori e sul perfetto contrappunto tra i movimenti dei due gruppi che convergono verso il Bambino; anche gli sguardi confluiscono tutti su di lui, a eccezione di quello dell’angelo più grande, che si rivolge all’osservatore sollecitando la sua partecipazione. 

Girolamo Romani detto Romanino (Brescia 1484/1487-1560)
Cena in Emmaus, 1532-1533 circa
Affresco (strappo), cm 325×248
Ingresso: 1864, deposito dall’Ospedale Maggiore di Brescia, poi trasformato in acquisto nel 1882 

La Cena in Emmaus proviene dal refettorio della foresteria dell’abbazia di San Nicola a Rodengo. Insieme all’adiacente Cena in casa di Simone fariseo, l’affresco giunse presso la Pinacoteca Tosio Martinengo nel 1864, a seguito dello strappo eseguito dal celebre restauratore Bernardo Gallizioli. La divisione del pane ai discepoli in Emmaus veicola i temi dell’accoglienza e dell’ospitalità: a questi principi evangelici era infatti ispirato il programma iconografico che decorava il refettorio della foresteria, coerentemente all’importanza attribuita dagli olivetani all’attività assistenziale dei pellegrini. L’episodio è collocato sotto la campata di un portico, concepito come dilatazione dello spazio reale del refettorio. L’effetto di continuità visiva era garantito dal sapiente impiego della luce, giocata sulla corrispondenza delle aperture laterali dipinte negli affreschi e le due finestre realmente presenti nell’ambiente. Le soluzioni luministiche e illusionistiche si combinano con la enfatica monumentalità delle figure, connotate de un’indole rustica e teatrale. Questa verve di “eroismo popolare” trova consentaneità con il ciclo eseguito da Romanino al Castello del Buonconsiglio di Trento, oltre che con quelli licenziati in Val Camonica. Con queste prove la Cena in Emmaus condivide anche la particolare tecnica esecutiva a tratteggio e la rapidità di condotta, con pennellate ampie e sprezzate e vibranti lumeggiature a calce. 

Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto (Milano 1698-1767)
Scuola di ragazze, 1720-1725 circa
Olio su tela, cm 194 x 170,5
Ingresso: 1997, acquisto 

Nel 1931 lo storico dell’arte Giuseppe De Logu riscoprì tredici quadri di Ceruti con scene di vita popolare, conservati presso il castello di Padernello, nella bassa pianura bresciana. All’interno di questo novero, ribattezzato “ciclo” di Padernello, si trova la Scuola di ragazze, acquistata dalla Pinacoteca Tosio Martinengo nel 1997. In una stanza disadorna, un gruppo di ragazze cuce silenziosamente, mentre una donna più anziana dal profilo affilato interrompe la sua attività per insegnare la lettura a una bambina. Le loro sedie sono disposte in maniera casuale, come se il gruppo si fosse formato via via con il progressivo aggregarsi intorno alle due protagoniste più mature. Indossano vesti confezionate col rattoppo di tessuti di recupero, i cui colori spenti, giocati su una delicata gamma che va dal bianco al grigio, sono ravvivati da tocchi improvvisi di viola, rosso e arancione. La pennellata è fluida e magra, propria dei primi anni di Ceruti a Brescia. I volti malinconici e intenti rivelano la consapevolezza e il peso di una condizione di difficoltà. Si può immaginare che queste donne vivano in un istituto di beneficenza: l’impegno nel lavoro e nell’apprendimento sono evidenziati dalla scelta del pittore di raffigurare le mani al centro della composizione e il cestino in primo piano. Tale sottolineatura, del resto, rispecchia pienamente la sensibilità assistenziale espressa da molti dei committenti bresciani di Ceruti, che spesso rivestivano cariche di responsabilità all’interno di orfanatrofi e luoghi pii. 

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